L’itinerario di Ella Adaïewsky tra due mondi e due secoli
Ella von Schultz Adaïewsky
dai XXIV Preludi per canto e pianoforte: Libro I
testi di Benno Geiger
I. Inschrift
II. Erster Schnee
III. Rasche Fahrt
IV. Die Wüste
V. Das Lied der Frauen
VI. Friede auf dem Athosberg
VII. Weihnachtsgesang
VIII. Oktober
IX. Worte
X. Von Hörensagen
XI. Die Tanne
XII. Voraussetzung
Ella von Schultz Adaïewsky
Griechische Sonate per clarinetto e pianoforte
Proëmion
largamente, più presto e largamente patetico, Krouma, allegretto cantabile, Tempo I, largamente
Partie métabolique
Con moto, quasi alla marcia, tranquillo, allegretto cantabile, Tempo I, solenne
Alma Mahler
dai 5 Lieder (1911)
Nr.1 Die stille Stadt
Nr. 4 Bei dir ist es traut
Nr. 5 Ich wandle unter Blumen
Per pianoforte e soprano
Alban Berg
4 pezzi per clarinetto e pianoforte op. 5
Mäßig
Sehr langsam
Sehr rasch
Langsam
Franz Schubert
Der Hirt auf dem Felden
per soprano,
clarinetto e pianoforte
Cristina Dal Tin, soprano
Nicola Bulfone, clarinetto
Andrea Rucli, pianoforte
Ella von Schultz Adaïewsky (San Pietroburgo 1846, Neuwied am Rhein 1926), compositrice, pianista ed etnomusicologa di San Pietroburgo che soggiornò pìù di venti estati, a cavallo tra XIX e XX secolo, nell’allora ridente e turistica cittadina di Tarcento.
ATTI DEL CONVEGNO 2006 – Ella von Schultz Adaïewsky MUSICISTA SANPIETROBURGHESE NELLA TARCENTO DELLA “BELLE EPOQUE”
L’incontro scintillante tra Hersi, diplomata al Conservatorio Santa Cecilia di Roma e Ilaria, diplomata al Conservatorio Evaristo dall’Abaco di Verona, avviene nel 2018 grazie ad un concerto di musica antica. Hersi Matmuja, nata nel Paese delle aquile, l’Albania, cresce sul palcoscenico esibendosi in numerosi festival canori. Si laurea al Conservatorio Santa Cecilia di Roma e inizia a cantare a livello internazionale nei più importati teatri e si dedica principalmente al canto lirico nell’opera classica e contemporanea. Protagonista nelle principali radio e televisioni nazionali italiane e albanesi, vincitrice di prestigiosi premi e rappresentante dell’Albania all’Eurovision Song Contest del 2014, Hersi dal 2015 lavora con la straordinaria e famosa Orchestra di Piazza Vittorio. Ilaria Fantin, nata a Vicenza, svolge da quindici anni un’intensa attività artistica in Italia e Europa, concentrandosi su repertori legati alla musica antica e tradizionale ma muovendosi anche verso il pop e il cantautorato, come interprete e autrice. Ha registrato per diverse etichette tra cui Glossa e Sony e suonato per radio e televisioni nazionali. Si occupa di organizzazione di eventi con l’associazione Be Ancient Be Cool ed è direttrice artistica del festival Musica delle Tradizioni che, ogni ottobre, porta in Teatro Comunale a Vicenza nomi internazionali della world music. La passione delle due musiciste per la musica tradizionale e i suoi temi ancestrali e spontanei porta alla nascita di HANA nella primavera 2019, con lo sbocciare dei fiori.
HANA
Il progetto prende ispirazione dalla LUNA, la cui traduzione è HANA in gegë, dialetto parlato al Nord dell’Albania. Il repertorio con cui iniziano la loro collaborazione è infatti interamente dedicato alla luna con brani tradizionali sefarditi, albanesi, italiani, portoghesi, spagnoli e brasiliani. Il progetto rende omaggio a diverse comunità in viaggio nel tempo e nelle storia, raccontando la dolcezza e la tristezza di esodi e rimpatri o volteggiando allegramente grazie ad alcune passionali danze popolari dal tempo composto. Il repertorio alterna brani a voce sola con melodie strumentali o cantate accompagnate dalle percussioni, canzoni a due voci e danze condivise con il pubblico, senza tralasciare racconti, aneddoti e qualche risata.
I LUOGHI DI ALTOLIVENZAFESTIVAL
Chiesa della Madonna della Salute (già Ognissanti) a Polcenigo
La chiesa dedicata a Tutti i Santi sorse nell’ambito del borgo castellano polcenighese nel 1371, acquisendo nel corso del secolo successivo la parrocchialità prima appartenuta a San Giovanni di Polcenigo. Risale all’epoca della costruzione il delicato affresco raffigurante la Madonna allattante, oggi collocato all’interno della chiesa di San Giacomo, attribuito a un dotato seguace di Vitale da Bologna. Verso la fine del ’500 radicali lavori di rifacimento cambiarono l’orientamento originale della chiesa, spostando l’abside a ovest e l’entrata a est. La poco felice posizione dell’edificio sacro, a pochi passi dalla strada e dalla piazza principale del paese, l’assenza di sagrato e di cimitero, nonché le dimensioni insufficienti ad accogliere un numero crescente di fedeli determinarono poi nel 1770 la perdita della parrocchialità in favore della vicina San Giacomo. Agli inizi dell’Ottocento la chiesa di Ognissanti mutò il titolo in Beata Vergine della Salute, forse connesso al ricorso dei fedeli alla Vergine contro le ricorrenti malattie epidemiche. Nel 1931 risultava al suo interno anche un quadro della Beata Vergine del Rosario, che il vescovo Luigi Paulini ordinava di spostare in San Rocco: si tratta forse del dipinto settecentesco oggi conservato nella sacrestia di San Giacomo. Nel 1937 il parroco, per risolvere problemi di viabilità, decise di rinnovare e smussare la facciata dell’oratorio, incaricando l’architetto Domenico Rupolo di Caneva di predisporre il progetto, realizzato poi concretamente dall’ingegnere polcenighese Pietro Bazzi. Nello stesso anno lo scultore Giuseppe Scalambrin di Fossalta di Portogruaro realizzò la statua lignea della Madonna della Salute. A completare il rinnovamento della chiesa, giunse dal duomo di Sacile un nuovo altar maggiore. Il 2 febbraio 1945 un deposito di legname e carbone prese fuoco e le fiamme si propagarono al vicino edificio sacro, causando il crollo dell’altar maggiore e distruggendo la sacrestia, ricostruita nei primi anni Cinquanta del Novecento. Dopo il sisma del 1976, la chiesa venne chiusa al culto per le gravi lesioni alla muratura e al tetto. È stata nuovamente riconsegnata alla pietà dei fedeli e alla curiosità dei tanti turisti dopo il radicale restauro del 1994-95, che ha rivelato tra l’altro la presenza di tre nicchie di finestre strombate con arco a tutto sesto nella parete verso il Gorgazzo e scoperto la pianta del primo oratorio, più piccolo rispetto all’edificio attuale. Nell’intonaco della facciata, inquadrata da due lesene, un’opportuna bisellatura precisa l’altezza della chiesa antica; i restauri hanno messo in evidenza anche un rosone centrale più ampio rispetto a quello dell’edificio novecentesco. Sul portale d’ingresso, riquadrato in pietra e sormontato da una cimasa aggettante, è collocato uno stemma lapideo dei conti di Polcenigo e Fanna. L’interno è ad aula unica, senza presbiterio, con soffitto a capriate; desta un certo interesse l’acquasantiera, manufatto in pietra risalente con ogni probabilità al XVII secolo. L’altar maggiore barocco in marmi policromi ospita la già citata statua lignea dello Scalambrin, fortunosamente scampata all’incendio del 1945.
Chiesa di San Rocco a Polcenigo
Edificio di incerta fondazione, forse del XIV o del XV secolo, quando è menzionato per la prima volta nella documentazione, è caratterizzato dall’insolito campanile a canna quadrata, basso e tozzo, che si presuppone abbia riutilizzato un’antica torre medioevale di protezione del borgo. Dedicata al santo tradizionalmente protettore dalla peste e dalle altre malattie infettive, la chiesa si trovava un tempo giusto all’inizio dell’abitato, quasi una sentinella celeste col compito di tener lontano il contagio proveniente da fuori. L’edificio, coperto a coppi, ha una facciata liscia con occhio al centro del frontone e portone con cornice lavorata e timpano. A sinistra, in una finestrella, si nota un’antica e curiosa “manina” in pietra che invita i fedeli a fare l’elemosina nell’apposita fessura, come da indicazione di una sovrastante scritta incisa sulla pietra. L’interno è un’aula unica con bel soffitto a travi scoperte; notevole l’elegante acquasantiera con decorazioni floreali (XVI-XVII sec.). L’altare principale (fine XVII-inizi XVIII sec.) è un garbato prodotto barocco in marmi policromi; ospita un’intensa Resurrezione dell’azzanese Pierino Sam (1985), autore anche dei quadri della Via Crucis in terracotta (1965). Nell’intradosso dell’arcosanto si rinvengono alcuni sbiaditi affreschi devozionali commissionati da un certo Mario Viana, risalenti al 1638, periodo di pestilenze, con l’effigie di un barbuto San Rocco. L’altare di destra (XVIII sec.), ravvivato da intarsi in marmo policromo, possiede un tondo centrale in bassorilievo di grande finezza con la Madonna fra gli angeli benedicente San Pietro, probabilmente proveniente da un’altra chiesa, e una moderna statua lignea di San Rocco, opera di Carlo Pancheri di Ortisei (1943).
Mulino Sanchini a Polcenigo
Polcenigo poteva contare in passato, già nel Medioevo, su diversi opifici idraulici, mossi quasi tutti dalle acque del Gorgazzo e di un suo ramo secondario artificiale, detto Gorgazzetto. Tra di essi, spicca il mulino Sanchini in Via Sega, appena fuori dal centro della cittadina, sul Gorgazzetto. È un edificio che ha una storia plurisecolare, caratterizzata da varie trasformazioni d’uso. La prima notizia certa è del 1481, quando i conti di Polcenigo acquistarono da mistro Daniel Zambon un follo da panni, chissà quando costruito, posto fuori del borgo. Il follo da panni (o gualchiera) era un edificio dove si sgrassavano, assodavano e infeltrivano i panni di lana, rendendoli compatti e pressoché impermeabili, utilizzando l’azione continua di una sorta di pesanti mazzuoli di legno messi in movimento da ruote idrauliche del tutto simili a quelle dei mulini. I folli erano di solito situati fuori dagli abitati, sia per la loro notevole e disturbante rumorosità, sia perché il processo di lavorazione della lana sporcava le acque, che quindi non potevano più essere usate per essere bevute o per lavare. Nel Seicento i conti di Polcenigo affittarono l’opificio prima ai conti di Colloredo e poi ai nobili udinesi Del Torso, che lo diedero in gestione ad esperti follatori. Intorno al 1738 i conti polcenighesi costruirono accanto al follo da panni una segheria idraulica da legname. Ai primi dell’Ottocento risultava operante però solo la segheria (il follo non era dunque più attivo, forse perché non più redditizio), alla quale si aggiunse però ben presto un nuovo mulino. Nel 1903 il mulino-segheria passò dai conti a Luigi Lacchin: le sue condizioni dovevano essere pessime, se non in totale rovina, e venne pertanto ricostruito. Il progresso portò all’eliminazione totale delle ruote idrauliche esterne e alla loro sostituzione con l’energia elettrica come forza motrice dell’impianto. L’opificio lavorò fino al 1985; dopo tale data funzionò per breve tempo la sola segheria. Nel 1990 la sega fu smontata e venduta in Russia: finiva in questo modo la storia produttiva plurisecolare dell’opificio idraulico.
L’edificio, ben conservato, è passato col tempo varie volte di proprietà, ma, curiosamente, sempre a donne; ora appartiene ad Angela ed Elena Sanchini. A loro si deve il progetto di restauro della struttura, che si è concluso nel 2016. Si è così ridato alla Comunità polcenighese un luogo antico e fondamentale della sua storia, e si è inoltre contribuito in modo tangibile alla valorizzazione del borgo di Polcenigo e del paesaggio pedemontano. Nell’antico mulino-segheria sono tuttora presenti molti oggetti originali legati alla produzione di farina, a partire da due imponenti macine in pietra, e alcuni pannelli storico-didattici sull’edificio; nel piano inferiore è inoltre possibile vedere, ben conservati anche se inattivi, ingranaggi, pulegge, cinghie e alberi di trasmissione. La struttura ospita la sede dell’Associazione Borgo Creativo, che propone attività didattiche, passeggiate, workshop, corsi di cesteria e intreccio, conferenze, incontri e azioni di promozione culturale e turistica del territorio.
Subbasso 16, Principale 8, Posauna 16, Trombone 8.
ACCESSORI
Unione I-PED, Unione II-PED, Unione I-II
Tremolo.
Guida all’ascolto
Ilaria Centorrino
La musica è stata da sempre il mezzo per eccellenza per avvicinarsi a Dio, alla spiritualità e di conseguenza all’animo umano, seppur non composta appositamente ai fini liturgici. La scissione tra musica sacra e profana avviene già durante il medioevo, periodo in cui al rigore del canto gregoriano in latino, insieme al dramma liturgico e alle laude, si contrappongono le prime forme di canzoni e ballate in volgare. La musica barocca profana, in particolar modo madrigali e melodrammi, ha spesso contribuito, seppur involontariamente, all’evoluzione della musica sacra avvicinando le singole forme, rese sempre più fluide e permeabili, allo stile concertato, riunendo quindi componenti sonore diverse (vocali, strumentali, solistiche o corali) e rappresentando la mescolanza sonora contrapposta all’ideale di armonia del secolo precedente. Già a partire dalla metà del Seicento era ben consolidata la contrapposizione tra adagio e allegro, danza e contrappunto che alla fine determinerà la distinzione fra sonata da chiesa, più severa, e sonata da camera, più frivola. Nonostante siano due ambiti molto diversi, col passare del tempo la differenza tra sacro e profano si assottiglia sempre di più e, nell’ambito della musica per organo, gli stessi artisti componevano sia musica dedicata esclusivamente ad animare la liturgia che lavori su commissione o dedicati al perfezionamento della tecnica e dei virtuosismi oppure semplicemente per fini didattici come le sonate in trio di Bach, le quali, stando al biografo Johann Forkel, sarebbero state scritte come esercizio per il figlio maggiore Wilhelm Friedemann. Nella Sonata in trio n. 4 notiamo che il primo movimento era stato usato precedentemente da Bach nella cantata “Die Himmel erzählen die Ehre Gottes” BWV 76 (“ I cieli narrano la gloria di Dio”) e questo dettaglio la rende un reale esempio del sottile confine tra composizione sacra e profana. Il programma che ascolteremo sarà un excursus tra le forme più importanti del barocco, dal più antico ricercare alle complessità contrappuntistiche della fuga, passando da fantasie e corali. Nella Germania del Settecento, ad un’instabilità politica e religiosa corrispondeva anche una tradizione musicale frastagliata. Il nord era prevalentemente protestante e di conseguenza la loro cultura musicale era più incentrata sul gusto tradizionale per la complessività polifonica e l’elaborazione del corale luterano. La Germania del sud invece era in prevalenza cattolica e più permeabile alle influenze italiane, come possiamo notare nello stile armonicamente e tecnicamente più semplice di Johann Pachelbel, nonostante anche Dietrich Buxtehude insieme al suo predecessore Franz Tunder fossero anch’essi fortemente influenzati delle composizioni in “stile libero” di Frescobaldi. Lo Stylus Phantasticus della toccata in re min BuxWV 155 è infatti ciò che il musicologo Athanasius Kircher, nel suo trattato Musurgia universalis, descrive: «Lo stylus phantasticus, proprio della musica strumentale, è il più libero e meno vincolato metodo di composizione. Non è soggetto a niente, né alle parole, né ai soggetti armonici; è creato per mostrare l’abilità dell’esecutore e per rivelare le regole segrete dell’armonia, l’ingegnosità delle conclusioni armoniche e la capacità di improvvisare fughe.» A differenza del corale di Bach che sentiremo stasera “Schmücke dich, o liebe Seele” (Adornati, o Anima cara) e della fantasia corale di Tunder “Christ lag in Todesbanden” (“Cristo giaceva nei lacci della morte”), le composizioni che non erano basate su un corale, e di conseguenza non legate ad un significato religioso, potevano essere eseguite per diletto o per intrattenimento. Sono difatti di notevole importanza gli Abendspiele (“Suonate serali”) ideati da Franz Tunder per intrattenere con musica per organo i borghesi e i commercianti della città che avevano preso l’abitudine di riunirsi all’interno della Marienkirche di Lubecca. Dietrich Buxtehude, organista dal 1668 al 1707, successore di Tunder, continuò questa tradizione, ma, visto il successo dell’iniziativa, spostò i concerti dai giorni feriali (si svolgevano solitamente il giovedì) ai giorni festivi, e li rinominò Abendmusiken (“Musiche serali”). La Fantasia e Fuga in sol minore BWV 542 di Johann Sebastian Bach è un ulteriore esempio di quanto la musica da chiesa fosse costantemente legata con un filo sottile al popolare. Alcuni studiosi pensano che la Fuga sia stata improvvisata da Bach durante la sua audizione per il posto di organista nella chiesa di San Giacomo ad Amburgo nel 1720 e che il soggetto di tale fuga corrisponda a un brano popolare olandese “Ik ben gegroet van” (“Sono stato accolto da”). Nell’apoteosi della retorica di questa Fantasia, tra arditezze armoniche, sospensioni, settime diminuite, cromatismi che portano ad accordi minori inaspettati, progressioni di settime diminuite e cadenze interrotte, ci lasciamo trasportare dal “thauma” (la meraviglia) e rimaniamo in ascolto di quella trascendenza che solo la musica sa regalarci.
Al principio dell’alba videro, dalla ridotta nuova, sulla pianura settentrionale, una piccola striscia nera. Un segno sottile che si muoveva, e non poteva essere allucinazione. Avanzava dal nord attraverso la landa disabitata e parve assurdo prodigio. Qualcosa si avvicinava dal settentrione, come mai era successo a memoria d’uomo.
Guardando dalla Fortezza Bastiani verso nord, lungo il Deserto dei Tartari, quello del capitano Drogo è uno sguardo di angoscia: oltre il confine, c’è l’ignoto e da lì proviene il pericolo. C’è qualcosa di naturale, perché istintivo, in questo turbamento che pervade quando ci si trova davanti qualcosa di sconosciuto. Sui confini (tra gli stati, i popoli, le culture, le generazioni…) si sono consumati molti conflitti: il racconto eziologico sul mancato incontro fra i troiani di Enea e i fenici di Didone (concerto del 10 settembre) ne è un esempio.
Ma la cultura serve proprio a far uscire ciò che è sconosciuto dall’ombra dell’ignoto, spogliandolo dell’aura oscura in cui lo abbiamo relegato. Ci è alleata un’altra forza, naturale quanto l’angoscia dell’ignoto: la curiosità per tutto ciò che è inedito. Quella curiosità che sicuramente provò Benedetto Marcello, quando, giovane, forse ragazzo, passando nei pressi del Ghetto in giorno di Sabato, udiva trapelare i canti delle sinagoghe, e che lo spinse a trascriverli e utilizzarne i temi per comporre i suoi salmi (concerto del 16 ottobre); che ci stimola a viaggiare, collezionando, dei luoghi attraversati e delle genti incontrate, ricordi fatti anche di canti espressi dalle diverse culture, di cui Hana, il 16 settembre, ci darà esempio. La nostra regione, terra di confine, ne ha vissuti entrambi gli aspetti: e se Gorizia, la città capitale europea della cultura per il 2025, con la sua divisione, testimonia le tragedie che possono avvenire ai confini, lungo quello stesso spartiacque si sono anche incontrati, non solo scontrati, popoli, culture, fedi, come nella vicina Trieste, dove convivono pacificamente diverse comunità religiose, perfettamente integrate nella città (concerto del 29 ottobre).
Pasolini, di cui il nostro festival celebra il centenario della nascita, uomo che i confini li superava agevolmente, spinto da quella curiosità che era autentico amore per l’altro: poeta, romanziere, saggista, regista passava da una disciplina all’altra, lasciando ovunque il segno. Accostò la musica da dilettante, ma con grande interesse e con la consueta acutezza, abbracciando le espressioni popolari del Friuli (17 settembre) come i capolavori bachiani e mozartiani (29 settembre), fino a vagheggiare, in un romanzo autobiografico come Amado mio, gli scenari della musica a venire (12 novembre).
Pasolini è un intellettuale che sentiamo vicino a noi, come tre anni fa sentimmo vicino Leonardo: Altolivenzafestival è abituato ad accostare discipline diverse, a far incontrare competenze e culture lontane. Sul confine, senza alcun timore per quello che sta oltre, sentiamo tutta la curiosità per quello offre l’immenso spazio del Deserto dei Tartari.
BIGLIETTO: intero 8€ – ridotto 5€* – prenotazione obbligatoria (*Giovani con meno di 15 anni, adulti con più di 65 anni, soci dell’Associazione Culturale Altoliventina a. p. s.)
VENDITA BIGLIETTI: Teatro Pileo il giorno stesso del concerto dalle 14.30
PRENOTAZIONI: Prenotazione obbligatoria fino ad esaurimento posti e nel rispetto delle vigenti disposizioni anti Covid-19. Tel. 0434.1834786 – cell. 333.8352808 (Lunedì, Martedì e Venerdì dalle 15.00 alle 19.00) info@altolivenzacultura.it
‘Ecclesie hospitalis sancti Johannis de Prata, unum mansum, iacentem in Prata Veteri, et vigintiquinque libras denariorum venetorum ad emendum libros praedictae ecclesie, in cuius cemeterio corpus suum constituit sepeliri’.
Nel 1262, il conte Guecello II veniva sepolto, per sua volontà, nella chiesa di San Giovanni, a Prata di Pordenone. Irriducibile ghibellino, aveva combattuto a fianco di Ezzelino III, ritirandosi, dopo la tragica fine degli ultimi da Romano, nei suoi possedimenti di Prata.
La chiesa di San Giovanni, faceva parte di un ospizio dei Cavalieri Ospitalieri di Gerusalemme e venne eretta nella prima metà del XIII secolo, probabilmente per volontà dello stesso Guecello. Il complesso ospitaliero adiacente alla chiesa, oggi non più visibile in quanto gli ultimi resti sono stati distrutti durante la costruzione delle case d’abitazione, non doveva essere particolarmente grande, anche se possedeva una sua importanza strategica, in quanto, assieme agli ospizi giovanniti di Arta Terme e di san Tomaso di Susans da cui dipendeva, si trovava a controllare la strada che univa le valli oltramontane con la laguna.
IL RESTAURO
La chiesa, più volte riedificata, ha subito un lungo e inarrestabile degrado, tanto che, nel 2007, è stato indispensabile sottoporla a consolidamento e a un accurato restauro.
LA CHIESA DI PRIMA FASE – Il cimitero dei Prata
Vista dall’esterno, la chiesa appare come un piccolo fabbricato rettangolare con un’abside quadrata e un piccolo campanile a vela.
Varcando la porta, si rimane piuttosto sorpresi nell’osservare due arche monumentali fissate alle pareti da due poderose mensole di pietra. Vicino all’acquasantiera, si può scorgere una lapide sepolcrale trecentesca, e un’altra poco distante. Una terza è murata sul piano dell’altare.
Nel corso dello scavo archeologico compiuto nel 2007, che ha interessato il piano pavimentale della chiesa, si sono potute evidenziare tre fasi costruttive distinte, che, partendo dalla prima fondazione della chiesa, collocabile nella seconda metà del XIII secolo, giungono fino ai nostri giorni. La prima fase, la più interessante, appare legata indissolubilmente alla storia dinastica dei conti di Prata, storia che lo scavo stesso ha permesso di chiarire in alcuni suoi aspetti.
Lo scavo si è presentato subito molto complesso ed è stato eseguito rispettando i canoni e le tecniche dell’antropologia funeraria, cercando di ottenere il maggior numero di informazioni possibili sulle caratteristiche e sulla sequenza delle sepolture. I resti ossei sono poi stati accuratamente restaurati, classificati e analizzati. I risultati dello studio sono stati estremamente interessanti.
I CONTI DI PRATA
All’interno della chiesa, sulla parete nord, si conservano due arche posizionate all’altezza di circa 2 metri, realizzate per due esponenti del casato dei Prata: Pileo I e Nicolò I.
La seconda arca dichiara di contenere le spoglie mortali di Nicolò I e della moglie Caterina di Castrocucco: ‘Sepolcro del nobiluomo signor Nicolò di Prata e di sua moglie, la signora Caterina di Castrocucco, che morì nell’anno del signore 1344, il 23 di agosto. L’arca presenta sul fronte tre rilievi marmorei alternati da due lastre in marmo rosso: ai lati sono raffigurati san Franceso e san Giovanni Battista, mentre al centro si colloca una Madonna in trono con Bambino, inserita all’interno di un’edicola. Una cornice dentellata completa la decorazione del prospetto che termina, nella parte superiore, con una fascia a motivo floreato. Questi due elementi, caratterizzano anche i fronti laterali, molto più semplificati e privi di rilievi. Nella parte inferiore, l’arca presenta una lastra modanata, sulla quale è incisa l’iscrizione, Le tracce di colore ancora presenti sul marmo dell’arca, dimostrerebbero che anche l’arca di Nicolò era policroma. Una recente rilettura confermerebbe l’appartenenza dell’opera alla bottega del veneziano Andriolo De Sanctis
GUECELLO II
Nel periodo tra la metà del XII e la metà del XIII secolo, la Marca Trevigiana ed il Friuli appaiono come due aree ben distinte. Mentre ad ovest del Livenza si affermano i Comuni, soprattutto quello di Treviso, nel Friuli è predominante invece uno stato ecclesiastico di tipo tedesco, che mantiene un carattere di chiara impronta agrario-feudale: il Patriarcato di Aquileia. Dal punto di vista politico, i signori di Treviso, ovvero la potente famiglia dei da Romano, e i Patriarchi, si trovarono quasi costantemente sulla sponda opposta. Dagli anni ’60 del XII secolo fino al 1232, i da Romano sono da considerare quasi sempre Guelfi e i Patriarchi di Aquileia, ghibellini. Solo per un breve periodo, cioè dal 1232 al 1245, i da Romano e i Patriarchi, si trovarono sulla stessa sponda, cioè quella filo imperiale. Ma a partire dal 1245 il Patriarca di Aquileia passò al partito guelfo, mentre Ezzelino III da Romano rimase ghibellino: un perfetto rovesciamento della situazione iniziale.
Le ostilità tra i da Romano e i Patriarchi coincisero quasi sempre con quelle tra ghibellini e guelfi, cessando, dopo la morte di Federico II, cioè dopo il 1250, semplicemente per le difficoltà politiche di Ezzelino.
L’influenza dei da Romano fu particolarmente importante a ovest del Livenza, che rappresentò un confine naturale per l’espansione dei trevigiani verso il Friuli, mentre a est l’influenza fu in qualche modo regolata dalla famiglia dei da Prata, avvocata dei vescovadi di Ceneda e di Concordia e potenti signori, nel Friuli occidentale, di un territorio piccolo ma strategico, posto all’ingresso del territorio patriarcale.
Già intorno al 1160, dopo la sconfitta contro Ezzelino il Balbo, che agiva per conto di Treviso, Guecello I da Prata fu costretto a diventare cittadino trevigiano e a imparentarsi coi da Romano
Nel 1228 il nipote di Guecello I, Guecello II, compare tra i consiglieri di Ezzelino III e nel 1247 ‘per grazia di Ezzelino e in sua presenza’ assume la carica di Podestà di Padova, che tenne fino al 1249. Guecello II ed Ezzelino, insieme, aiutarono Federico II nello sfortunato assedio di Parma e ancora, nel 1256, Ezzelino creò Podestà di Vicenza Mainardo, figlio di Guecello II.
Ovviamente, il legame tra i da Romano e i da Prata turbò profondamente i rapporti con il Patriarca di Aquileia, anche se il fenomeno era generale: non solo loro, ma anche numerose famiglie nella stessa area alpina trovarono utile abbandonare le consuete fedeltà vassallatiche per poggiarsi ai comuni cittadini. Insomma, i signori di Prata non avevano fatto niente di più di tante altre famiglie nobili, che vedevano nei potenti comuni nuove possibilità di sviluppo e nuovi vantaggi.
Il tramonto degli imperiali e la morte di Ezzelino, il 28 settembre 1259, seguito dalla fine della famiglia dei da Romano, mise certamente a disagio i Prata, che finirono per far pace con il Patriarca. Le condizioni furono piuttosto onerose, in fatto di cessione di territori e indennità di guerra, ma il prestigio e la potenza dei da Prata rimasero indenni. Guecello si ritirerà definitivamente nei propri possedimenti, morendo nel 1262. Aveva avuto otto figli dalla moglie Milisenda, il che assicurava una stirpe florida e numerosa.
La famiglia dei Prata, nonostante la sconfitta della parte imperiale, si conservò sempre ghibellina. Nonostante che nel periodo dalla morte di Guecello sino al 1272, di loro non si abbiano particolari notizie, i conti di Prata parteciparono attivamente alla vita politica del Friuli. I Prata compaiono tra i congiurai per l’assassinio del Patriarca Bertrando, nel 1350, e probabilmente parteciparono all’assassinio dell’Abate di Moggio
I CONTI DI PRATA – la malattia
Al tempo del grande scisma, i Prata ebbero un ruolo strategico durante il concilio di Cividale del 1409, quali difensori di Papa Gregorio XII. Lo stesso Papa fu ospite dei Prata, tra il 20 e il 26 maggio dello stesso anno ed è probabile che lo stesso pontefice abbia celebrato messa nella chiesa di san Giovanni
Verso la metà del Trecento la famiglia dei Prata era composta da una ventina di membri, quasi tutti coetanei. Poco più di due decenni dopo, però, troviamo attivo solo il ramo famigliare di Niccolò III.
Come mai una famiglia che, intorno al 1340, contava una ventina di individui, si è estinta all’inizio del Quattrocento? La risposta è nell’analisi dei resti ossei, dalla quale risulta una malattia, la Treponematosi, che ha lasciato tracce singolari nello scheletro e che ha colpito i maschi, proprio a partire dal 1340. E una malattia di cui non abbiamo altri riscontri in Europa, se non nei Balcani. È una malattia che dà infiammazione delle ossa, con deformazioni, impotenza fisica e morte, ma non manifesta subito i suoi effetti, sicché può essere trasmessa da padre a figlio. Inoltre comporta infertilità.
La parabola dei Prata era ormai in discesa. Nel 1419 Prata verrà distrutta dai veneziani e poco dopo la famiglia si estinguerà con la morte, avvenuta presso Vienna, di Tolberto II. La contea venne assegnata da Venezia ai Floridi di Spilimbergo e da questo momento Prata, ormai distrutta, seguirà i destini veneziani.
LA CHIESA DI SECONDA E TERZA FASE
In un arco cronologico assai ristretto, compreso tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XV, la chiesa di prima fase viene interamente abbattuta per far spazio a un nuovo edificio. L’edificio di seconda fase si presenta così ingrandito, arrivando a misurare 18 metri di lunghezza per 9 di larghezza. L’ultimo intervento edilizio a interessare la chiesa di san Giovanni, nel XVII secolo, vede ricostruita completamente la facciata, rifatta l’abside e messo in opera il pavimento in cotto. (Simone Masier)
Nell’ambito dei restauri è stata recuperata anche la pala di San Giovanni, della quale si è scoperto l’autore: è un celebre artista del Cinquecento, il Montemezzano. Ci sono poi altre opere, che non hanno importanza artistica rilevante, ma dimostrano l’attaccamento devozionale a questa chiesa. (Ettore Polesel)
L’ospizio gerosolimitano, compresa la chiesa di san Giovanni, dopo la morte dell’ultimo priore residenziale, avvenuta nel 1456, passerà in commenda alla famiglia patrizia veneta del Lippomani, che la conserverà, fino all’estinzione della famiglia, avvenuta nel 1856.
PROPRIUM MISSAE IN NATIVITATE SANCTI IOHANNIS
Cappella Altoliventina Roberto Spremulli, solo Sandro Bergamo, direttore
I testi e i video sono tratti da:
La chiesa di San Giovanni dei Cavalieri: arte, musica, storia a cura di Fabio Cavalli e Sandro Bergamo.
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